Le sentenze sulla diffamazione ci aiutano a scoprire in modo dettagliato e pratico tutti gli aspetti di questo reato. Presenteremo la giurisprudenza della Corte di cassazione in modo tematico, seguendo un ordine logico piuttosto che cronologico.
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Indice
- Elementi costitutivi del reato di diffamazione
- Sentenze sulla diffamazione aggravata
- Le cause di giustificazione
- Sentenze sulla diffamazione riguardanti alcuni casi specifici
- Procedibilità del reato
- Competenza territoriale nelle sentenze sulla diffamazione
Elementi costitutivi del reato di diffamazione
Il reato di diffamazione è commesso da chiunque offende la reputazione di una persona assente, comunicando con più persone. Vediamo allora cosa dicono le sentenze sulla diffamazione pronunciate dalla Cassazione riguardo ai diversi elementi costitutivi di questo reato…
Pluralità di persone
Affinché ci sia diffamazione, il colpevole deve comunicare con “più persone”, cioè due o più persone diverse dalla persona offesa. Ma se il colpevole comunica soltanto con una persona ma prevede che anche altre persone vengano a conoscenza delle sue dichiarazioni diffamatorie?
Ecco la risposta fornita dalla Corte di cassazione, ricordando anche che deve sussistere il dolo riguardo a tutti gli elementi costitutivi della fattispecie:
«In tema di delitti contro l’onore, l’elemento psicologico della diffamazione consiste non solo nella consapevolezza di pronunziare o di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione ma anche nella volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone. Pertanto, è necessario che l’autore della diffamazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola persona, ma con tali modalità che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri ed egli si rappresenti e voglia tale evento» (Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 36602 del 13 ottobre 2010).
Assenza della persona offesa
Nella diffamazione, a differenza che nell’illecito civile di ingiuria, la persona offesa deve essere assente alla comunicazione offensiva. Se si tratta di comunicazione a distanza, la diffamazione sussiste quando la comunicazione non è diretta alla persona offesa.
Tuttavia, specie nelle comunicazioni che avvengono sulla rete, si pone talvolta il problema di capire se la persona offesa può dirsi “virtualmente presente” (e quindi si tratterebbe al massimo di ingiuria) oppure no (potendosi allora configurare la diffamazione). Ad esempio, se il colpevole pubblica un messaggio lesivo della reputazione in un gruppo online costituito da numerosi membri, tra cui anche la persona offesa, quel messaggio può costituire diffamazione?
Tra le sentenze sulla diffamazione della Cassazione troviamo una risposta, cioè che non si può automaticamente escludere la diffamazione per il solo fatto che la persona offesa sia membro di un gruppo virtuale: «la eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive non può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato l’illecito di ingiuria piuttosto che il delitto di diffamazione, posto che, sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato (‘e-mail’ o ‘internet) consenta, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che il messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori – i quali, peraltro, potrebbero venirne a conoscenza in tempi diversi –, fa sì che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso» (Cassazione sez. V penale, sent. 7904/2019).
Recentemente, la Suprema Corte ha ulteriormente precisato la differenza tra le due fattispecie, affermando che: «l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore» (Cass., sez. V penale, n. 10905/2020). Nel caso di specie, che riguardava una offesa pronunciata durante una conversazione telematica alla quale erano presenti più persone oltre alla persona offesa, i giudici hanno spiegato la differenza rispetto al caso precedentemente trattato: «[…] gli insulti sono stati rivolti attraverso una chat vocale sulla piattaforma “Google Hangouts”, diversa dalle altre piattaforme chat digitali, che sono ‘leggibili’ anche da più persone; in tal caso, il destinatario dei messaggi era solo la persona offesa e la video chat aveva carattere temporaneo, sicché non verrebbe in rilievo il precedente di Sez. 5, n. 7904/2019, che riguardava una chat scritta (Whatsapp) in cui il messaggio offensivo può essere visionato anche da altri utenti; nel caso in esame, la chat aveva natura di conversazione vocale, e non rileverebbe che all’ascolto vi fossero altri utenti.»
E ancora, in una sentenza del 30 gennaio 2020: «[…] è proprio nell’assenza, che pone il soggetto passivo nella impossibilità di replicare immediatamente all’offesa, che si è ravvisata la ratio della maggiore gravità della diffamazione, rispetto all’ingiuria, mentre il concetto di “presenza” implica necessariamente la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso e spettatori o almeno una situazione ad essa sostanzialmente equiparabile, realizzata con l’ausilio dei moderni sistemi tecnologici (si pensi ad esempio alla call conference, all’audioconferenza o alla videoconferenza).» (Cass., pen. sez. V, 12898/2020).
Determinabilità della persona offesa
Le sentenze sulla diffamazione della Suprema Corte indicano chiaramente che, perché ci sia diffamazione, la persona offesa deve essere determinata o determinabile: «l’individuazione del destinatario dell’offesa deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione dell’offesa, sulla base di un criterio oggettivo, non essendo consentito il ricorso ad intuizioni o soggettive congetture di soggetti che ritengano di potere essere destinatari dell’offesa» (Cass. penale sez. I sentenza n. 39763 del 2017).
Inoltre, la persona offesa o le persone offese devono anche essere “individualizzate”. Così, la giurisprudenza ha escluso il reato di diffamazione in relazione a dichiarazioni concernenti categorie di persone. Ad esempio, “i napoletani” o “gli omosessuali”, genericamente parlando. Il principio è ribadito nella sentenza della Cassazione penale n. 32862/2019: «Il reato di diffamazione è, invero, costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria, anche limitata, se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili» (questa sentenza ha escluso che potesse ravvisarsi la diffamazione in parole offensive contro il popolo Rom in generale, anche se ha stabilito – invece – la sussistenza dell’incitamento all’odio o alla discriminazione etnica).
Sentenze sulla diffamazione aggravata
Diverse sono le circostanze che possono aggravare il reato di diffamazione. Ecco alcune delle più rilevanti…
Aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità
Il comma 3 dell’art. 595 del codice penale prevede una ipotesi aggravata di diffamazione se essa è commessa “a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità”.
Che l’uso di internet o di un social network (come Facebook, Twitter, ecc.) possa costituire diffamazione aggravata è ormai pacifico in giurisprudenza. Citiamo ampiamente una delle sentenze sulla diffamazione tramite social network della Cassazione penale sez. I (sentenza n. 24431/2015): «l’ipotesi di reato di cui al terzo comma dell’articolo 595 c.p. quale fattispecie aggravata del delitto di diffamazione trova il suo fondamento nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorché non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa. […] anche in questo caso, per definizione, si determina una diffusione dell’offesa ed in tale tipologia, quella appunto del mezzo di pubblicità, la giurisprudenza nel tempo ha fatto rientrare, a esempio, 1) un pubblico comizio, 2) l’utilizzo, al fine di inviare un messaggio, della posta elettronica secondo le modalità del forward e cioè vero una pluralità di destinatari, trattandosi anch’esso di mezzo idoneo a provocare una ampia e indiscriminata diffusione della notizia tra un numero indeterminato di persone».
Diffamazione a mezzo stampa
Le nuove forme di “stampa”: il giornale telematico
La diffamazione “a mezzo stampa” è una forma aggravata di diffamazione. Ancor di più qualora consista nell’attribuzione di un fatto determinato. Alla stampa, inoltre, si applica tutta la normativa specifica di cui alla Legge 47/1948. Ma i giornali online possono essere assimilati alla stampa cartacea anche per quanto riguarda le norme penali?
Le recenti sentenze sulla diffamazione sono orientate in senso positivo. Ecco quello che affermano le Sezioni Unite: «È di intuitiva evidenza che un quotidiano o un periodico telematico, strutturato come un vero e proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile (spesso coincidenti con quelli della pubblicazione cartacea), non può certo paragonarsi a uno qualunque dei siti web innanzi citati [semplici blog, social, ecc.], in cui chiunque può inserire dei contenuti, ma assume una sua peculiare connotazione, funzionalmente coincidente con quella del giornale tradizionale, sicché appare incongruente, sul piano della ragionevolezza, ritenere che non soggiaccia alla stessa disciplina prevista per quest’ultimo».
Ancora: «Conclusivamente, il giornale telematico […] soggiace alla normativa sulla stampa, perché ontologicamente e funzionalmente è assimilabile alla pubblicazione cartacea. È, infatti, un prodotto editoriale, con una propria testata identificativa, diffuso con regolarità in rete; ha la finalità di raccogliere, commentare e criticare notizie di attualità dirette al pubblico; ha un direttore responsabile, iscritto all’albo dei giornalisti; è registrato presso il tribunale del luogo in cui ha sede la redazione; ha un hosting provider, che funge da stampatore, e un editore registrato presso il Roc. Ovviamente – è il caso di sottolinearlo – le garanzie e le responsabilità previste, per la stampa, dalle disposizioni sia di rango costituzionale, sia di livello ordinario, devono essere riferite ai soli contenuti redazionali e non anche ad eventuali commenti inseriti dagli utenti (soggetti estranei alla redazione), che attivano un forum, vale a dire una discussione su uno o più articoli pubblicati» (Cass. SS.UU., sent. n. 31022/2015).
Da ciò discende una ulteriore conseguenza: «Il giornale on line, al pari di quello cartaceo, non può essere oggetto di sequestro preventivo, eccettuati i casi tassativamente previsti dalla legge, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa» (Cass. SS.UU., sent. n. 31022/2015).
Per diffamare basta il titolo?
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha riconosciuto in modo costante che il titolo (eventualmente insieme al sottotitolo) di un articolo di giornale può avere autonoma rilevanza diffamatoria. Anche a prescindere dal resto dell’articolo che potrebbe anche non contenere una offesa alla reputazione.
Questa tesi è stata autorevolmente ribadita recentemente dalla stessa Corte, sez. 3, con Ordinanza n. 12012/2017, la quale – richiamando precedenti pronunce (sent. n. 1976/2009; sent. n. 18769/2013) – ha affermato: «La giurisprudenza di questa Corte ha avuto più volte occasione di soffermarsi sulla possibilità che il solo titolo di un articolo, eventualmente letto unitamente all’occhiello ed al sottotitolo, rivesta di per sé una portata diffamatoria autonoma rispetto al contenuto dell’articolo stesso. […] A tal fine, tuttavia, è necessario che il titolo sia formulato in termini tali da recare un’affermazione compiuta, chiara, univoca ed integralmente percepibile dal lettore senza la lettura dell’articolo».
La Corte continua, ulteriormente precisando: «Posto che è indubbio che le modalità della comunicazione sono diventate, col trascorrere del tempo, sempre più rapide ed essenziali […] è giocoforza ammettere che tale rapidità rende ancora più importante la valutazione circa l’idoneità anche del solo titolo di un articolo di giornale a rivestire una potenzialità diffamatoria. Ciò in quanto la rapidità ora richiamata fa sì che di frequente i fruitori di un quotidiano o di un settimanale si limitino proprio a scorrere i titoli […]. Ne consegue che la valutazione della portata diffamatoria attraverso la lettura congiunta del titolo e dell’articolo riveste un’importanza minore rispetto al passato, proprio perché la fruizione dell’informazione è diventata più veloce, con ricadute importanti anche in ordine alla superficialità che inevitabilmente ne consegue».
Le cause di giustificazione
Le cause di giustificazione (anche denominate “scriminanti” o “esimenti”) sono, in generale, cause che rendono lecito un comportamento corrispondente – astrattamente – ad una fattispecie di reato. Quando ricorre una causa di giustificazione, il fatto non è antigiuridico in quanto viene autorizzato o imposto da altre norme. Nell’ipotesi della diffamazione, vengono in considerazione soprattutto l’esercizio dei diritti di cronaca e di critica, riconosciuti dall’art. 21 della Costituzione (come forme di libera manifestazione del pensiero).
La Corte di cassazione è chiara nel precisare a quali condizioni il diritto di cronaca e il diritto di critica possano giustificare affermazioni potenzialmente offensive per l’altrui reputazione. In una recente sentenza la Suprema Corte riassume così:
«Il diritto all’onore ed alla reputazione è un diritto fondamentale della persona, così come la libertà di manifestazione del pensiero è una libertà fondamentale dell’individuo. Quando quel diritto venga a confliggere con questa libertà, la prevalenza andrà assegnata all’uno od all’altra a seconda che sussistano o meno:
- l’interesse pubblico alla diffusione della notizia o dell’opinione;
- la verità putativa dei fatti narrati;
- la continenza delle espressioni adottate.
Rispettate queste tre condizioni, il diritto all’onore sarà sempre recessivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero» (Cass. civile sez. III, sent. n. 27592/2019).
Requisito della verità del fatto
La verità del fatto non è di per sé sufficiente a escludere la diffamazione. D’altra parte, se si attribuiscono fatti falsi e questi offendono la reputazione, il comportamento non potrà essere giustificato da altre cause.
Qualsiasi inesattezza può risultare diffamatoria? La giurisprudenza di Cassazione, con l’ordinanza della III sez. civile, n. 7757/2020, ha precisato che: «[…] la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali ove non alterino, nel contesto dell’articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili» (Si veda anche Cass. 17197/ 2015). La Corte ha continuato: «La regola di giudizio è dunque nel senso che sono da considerarsi marginali quelle inesattezze che non mutano in peggio l’offensività della narrazione, e che, per contro, sono rilevanti le imprecisioni che stravolgono il fatto “vero” in maniera tale da renderne offensiva la sua attribuzione a taluno. Ove cioè si ritenga che il fatto “vero” non è offensivo ed è dunque tale da rientrare, per la sua “verità”, nel diritto di cronaca, le inesattezze che lo riguardano, per avere rilevanza giuridica, devono essere tali da trasformare quel fatto da inoffensivo a diffamatorio».
Non è ostativa alla configurazione del reato di diffamazione nemmeno l’attribuzione implicita, allusiva o l’uso dei verbi al condizionale. La Suprema Corte ha sostenuto che «In tema di diffamazione a mezzo stampa, la pubblicazione di una notizia falsa ancorché espressa in forma dubitativa, può ledere l’altrui reputazione allorché le espressioni utilizzate nel contesto dell’articolo siano ambigue, allusive, insinuanti ovvero suggestionanti, e perciò idonee ad ingenerare nella mente del lettore il convincimento della effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati» (Cassazione pen. Sez. V, sentenza n. 45910 del 19 dicembre 2005).
La verità putativa
L’art. 59 comma 4 c.p. dispone che “Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui”. Questo vale anche per la sussistenza del diritto di cronaca o di critica: se l’agente ritiene per errore, ad esempio, che il fatto raccontato sia vero, potrebbero comunque ricorrere le esimenti del diritto di cronaca o di critica. In questo caso si parla di “verità putativa” del fatto.
La giurisprudenza della Cassazione indica che la verità putativa del fatto, distinta dalla verosimiglianza, ricorre quando il giornalista dimostri in giudizio l’involontarietà dell’errore, l’avvenuto controllo professionale della fonte e l’attendibilità della stessa, ritenendo non sufficiente il semplice affidamento in buona fede sulla fonte della notizia (Cassazione civ. sez. III, 4 febbraio 2005, n. 2271; Cassazione pen. sez. V, 9 luglio 2004, n. 37435).
Ancora, in una sentenza del 2010, la Cassazione ricorda che l’esimente putativa può essere invocata «in caso di affidamento del giornalista su quanto riferito dalle sue fonti informative, non solo se abbia provveduto comunque a verificare i fatti narrati, ma abbia altresì offerto la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti». (Cassazione pen. Sez. V, sentenza n. 27106 del 13 luglio 2010).
Più recentemente la Cassazione civile sez. III, con sentenza del 29 ottobre 2019, n. 27592, riguardo alle ipotesi in cui è escluso il risarcimento per danni causati da diffamazione, ha così esposto le condizioni per la sussistenza della verità putativa: «Perché operi questa scriminante sono necessari due elementi, uno oggettivo e l’altro soggettivo.
- Dal punto di vista oggettivo, è necessario che i fatti (poi rivelatisi) falsi fossero non manifestamente implausibili.
- Dal punto di vista soggettivo, è necessario che l’autore dello scritto abbia compiuto “ogni sforzo diligente”, alla stregua della diligenza esigibile dal giornalista medio, secondo la previsione dell’art. 1176 c.c., comma 2, per accertare la verità di essi.
Se dovesse ritenersi che, all’esito di tali sforzi, quei fatti sarebbero apparsi verosimili a qualsiasi giornalista mediamente diligente, l’autore dello scritto sarà scriminato. Se dovesse ritenersi che, all’esito dei suddetti sforzi, quei fatti sarebbero apparsi inverosimili od anche solo dubbi a qualsiasi giornalista mediamente diligente, l’autore dello scritto non sarà scriminato».
Per quanto riguarda l’onere di verificare la credibilità della fonte di informazione da parte del giornalista: «occorre avere riguardo a tutte le circostanze del caso, ed in particolare:
- (a) la qualità della fonte di informazione del giornalista, giacché il dovere di verifica da parte di quest’ultimo sarà tanto meno accurato, quanto più autorevole sia la fonte dell’informazione;
- (b) la diffusività del mezzo col quale viene veicolata l’informazione da parte del giornalista, giacché il suo dovere di controllo dovrà essere tanto più zelante, quanto maggiore sia la potenziale diffusività del mezzo d’informazione che intende adoperare.»
A quest’ultimo proposito, la Cassazione ritiene che l’uso del mezzo internet, a causa della sua enorme diffusività, richieda il massimo grado di diligenza nella verifica della notizia.
La Corte precisa ulteriormente che, anche qualora il giornalista tragga la notizia da una fonte particolarmente autorevole, come un provvedimento giudiziario o amministrativo, se essa ha ad oggetto fatti oggettivamente calunniosi: «ha sempre e comunque il dovere:
- (a) di dare conto chiaramente che si tratta di fatti riferiti da terzi, e non di fatti direttamente noti al giornalista;
- (b) di non tacere altri fatti, di cui egli sia a conoscenza, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato, come ad esempio nel caso l’articolista taccia sul fatto che le indagini di cui si dà conto risalivano a molti anni addietro;
- (c) di non accompagnare i fatti riferiti con sollecitazioni emotive, sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore false rappresentazioni della realtà».
La Corte enuncia dunque il seguente principio di diritto: «L’esimente della verità putativa dei fatti narrati, idonea ad escludere la responsabilità dell’autore d’uno scritto offensivo dell’altrui reputazione, sussiste solo a condizione che:
- a) l’autore abbia compiuto ogni diligente accertamento per verificare la verosimiglianza dei fatti riferiti;
- b) l’autore abbia dato conto con chiarezza e trasparenza della fonte da cui ha tratto le sue informazione, e del contesto in cui, in quella fonte, esse erano inserite;
- c) l’autore non ha sottaciuto fatti collaterali idonei a privare di senso o modificare il senso dei fatti narrati;
- d) l’autore, nel riferire fatti pur veri, non abbia usato toni allusivi, insinuanti, decettivi».
Requisito della continenza
L’esercizio dei diritti di cronaca e di critica deve rispettare il requisito di continenza. Ma quali sono i limiti oltre i quali si lede la continenza espressiva?
In un caso arrivato alla Suprema Corte, l’imputato aveva offeso la reputazione di un minore scrivendo sulla chat WhatsApp del gruppo del condominio: “Volevo solo far notare al proprietario dell’animale ciò che è stato procurato al volto di mia figlia. Domani al rientro del turno lavorativo prenderò le dovute precauzioni”.
La Corte di cassazione, nell’occasione, offre alcuni chiarimenti sui limiti della continenza, indicando quando si trascende nell’insulto: «La frase presenta un immediato contenuto offensivo espresso dalla parola “animale” riferita a un bambino. È vero che la recente giurisprudenza di legittimità ha mostrato alcune “aperture” verso un linguaggio più diretto e “disinvolto”, ma è altrettanto vero che talune espressioni presentano ex se carattere insultante. Sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si “disumanizza” la vittima, assimilandola a cose o animali.» (Cass. penale sez. V, sent. n. 34145/2019).
Requisito della pertinenza
Questo requisito richiede i destinatari della comunicazione abbiano un interesse oggettivo alla conoscenza dei fatti narrati. La giurisprudenza ha ritenuto estranea al diritto di critica la condotta – ad esempio – di dipendenti pubblici che avevano inviato alcuni esposti, recanti espressioni offensive nei confronti di un collega che svolgeva funzioni sovraordinate, non soltanto al diretto superiore gerarchico, ma anche “per conoscenza” a soggetti ulteriori, i quali in prima battuta non erano chiamati ad assumere atti di sorta.
In quel caso la Cassazione aveva rilevato negli imputati l’intenzione di mettere il collega “in cattiva luce nell’ambito dell’intera amministrazione di appartenenza”, senza che la comunicazione a tutti i terzi avesse una reale utilità (come invece può essere utile la segnalazione di illeciti ad un soggetto sovraordinato che può effettivamente intervenire).
Cronaca giudiziaria nelle sentenze sulla diffamazione
In tema di cronaca giudiziaria, soprattutto quando il giornalista racconta fatti di reato rispetto ai quali sono ancora in corso indagini preliminari, vale il principio per cui: «grava sul giornalista il dovere […] di raccontare i fatti senza enfasi od indebite anticipazioni di colpevolezza, non essendogli consentite aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell’ipotesi accusatoria, capaci di ingenerare nel fruitore della notizia facili suggestioni, in spregio del principio costituzionale di presunzione di innocenza dell’imputato e a fortiori dell’indagato sino a sentenza definitiva […]» (Cass. pen. sez. V, sentenza n. 15587/2017).
Il diritto di critica
Nel diritto di cronaca si attribuiscono fatti oggettivi. Nel diritto di critica – invece – si esprimono opinioni e giudizi di valore. Ne consegue che, mentre i requisiti di pertinenza e rilevanza si applicano ad entrambi nello stesso modo, il requisito della “verità del fatto” non è riferibile all’esercizio del diritti di critica nella stessa maniera.
Ciò viene espressamente affermato, ad esempio, dalla Cassazione sent. n. 26745/2016: «In tema di diffamazione, il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l’altro, nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e di comportamenti. Ciò comporta che in tema di diritto di critica il requisito della verità è da intendere limitato alla oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse».
Il giudizio critico, quindi, di per sé, non deve essere rigorosamente “vero”. Tuttavia, bisogna distinguere il giudizio valutativo dai fatti che l’accompagnano o che sono presentati come presupposto della critica.
Questo principio è fortemente ribadito dalla Cassazione sezione V penale sent. 21-09-2016, n. 54501 (data deposito 22-12-2016): «Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, in tema di diffamazione a mezzo stampa, presupposto imprescindibile per l’applicazione dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica è la verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione valutativa. In senso contrario, non possono essere valorizzate alcune massime nelle quali si legge che, in relazione all’esercizio del diritto di critica politica, il rispetto della verità del fatto assume un limitato rilievo, necessariamente affievolito rispetto alla diversa incidenza sul versante del diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica. Il significato di tali decisioni va colto, infatti, nell’intento di sottolineare il profilo valutativo essenzialmente insito nel diritto di critica, ma non anche in quello di escludere il rilievo della veridicità dei fatti dai quali trae spunto il giudizio espresso.»
E ancora: «Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte […] presupposto imprescindibile per l’applicazione dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica è la verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione valutativa» (Cass. sezione V penale; sentenza, 21-09-2016, n. 54501).
Diritto di satira nelle sentenze sulla diffamazione
Il diritto di satira è una particolare forma del diritto di critica. La Cassazione nella sentenza n. 5065 del 31 gennaio 2013 la definisce «una forma artistica che mira all’ironia sino al sarcasmo e alla irrisione di chi eserciti un pubblico potere, merita tutela e il relativo esercizio è incompatibile con il parametro della verità».
La satira è spesso mordace, talvolta impietosa. Ma incontra dei limiti? Secondo la Cassazione sì: «Se può affermarsi, in via di principio, che la aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità di offendere la reputazione e che la satira è incompatibile col metro della verità, nondimeno essa non si sottrae invece al limite della continenza, poiché comunque rappresenta una forma di critica caratterizzata da particolari mezzi espressivi. Ne consegue che, come ogni altra critica, la satira non sfugge al limite della correttezza, onde non può essere invocata la scriminante ex art. 51 c.p. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio» (Cassazione penale sez. V, sent. n. 32862/2019).
In realtà, in alcuni casi, la satira non può nemmeno violare il requisito della verità dei fatti. La Suprema Corte afferma chiaramente che «allorquando, nel contesto del discorso satirico, ma al di fuori dell’oggetto della satira, venga veicolata una notizia, si ha l’obbligo di riferire una notizia vera, non potendo diversamente invocarsi la scriminante dell’esercizio del diritto di satira» (sentenza n. 5065/2013).
Ancora più recentemente la Cassazione ha ribadito questa posizione, precisando ulteriormente: «Il diritto di satira, a differenza da quello di cronaca, è sottratto al parametro della verità del fatto, in quanto esprime, mediante il paradosso e la metafora surreale, un giudizio ironico su un fatto, purché il fatto sia espresso in modo apertamente difforme dalla realtà, tanto da potersene apprezzare subito l’inverosimiglianza e il carattere iperbolico: altrimenti, nemmeno la satira sfugge al limite della correttezza e della continenza delle espressioni o delle immagini utilizzate, rappresentando comunque una forma di critica caratterizzata dal carattere corrosivo dei particolari mezzi espressivi […]» (Cass. civile sez. III, sent. n. 6787 del 7 aprile 2016).
Sentenze sulla diffamazione riguardanti alcuni casi specifici
Commenti su Facebook
La Corte di cassazione ha ribadito la possibile natura diffamatoria dei commenti pubblicati su Facebook, anche soltanto sulla bacheca (Cass. pen. n. 4873/2017): «La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone […]».
Recensioni negative
La Corte, trattando di post satirici su Facebook e in particolare di un commento negativo su un’attività gastronomica, ha dichiarato (Cassazione penale sentenza n. 3148 del 23 gennaio 2019): «Rientra nel diritto di critica il post pubblicato sul social network con il quale si “denunciano” i prezzi esosi di un ristorante locale accusando anche di “truffare” sul peso dei ravioli. Non sussiste pertanto il reato di diffamazione in quanto non possono addossarsi a un mero utente gli stessi oneri informativi richiesti ai giornalisti.»
Procedibilità del reato
Termine di tre mesi per proporre querela
Generalmente, il termine per sporgere querela è di tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato. Alcune sentenze sulla diffamazione della Cassazione specificano che i tre mesi decorrono da quando l’offeso è a conoscenza di tutti gli elementi essenziali del reato.
Anzi, la Suprema Corte ha ritenuto che la querela è da considerarsi tempestiva quando rimane incerto se la conoscenza precisa, da parte dell’offeso, di tutti gli elementi costitutivi del fatto, sia avvenuta entro oppure dopo il termine di decadenza. Infatti, la decadenza dal diritto di sporgere querela deve essere accertata rigorosamente. (Si veda Cass. sez. VI penale sent. n. 24380/2015).
Competenza territoriale nelle sentenze sulla diffamazione
Secondo la Suprema Corte, quando il reato di diffamazione è commesso su un sito internet, la competenza per territorio è determinata in base al criterio del domicilio dell’imputato, secondo la regola suppletiva di cui all’art. 9 comma 2 c.p.p. (Cass. penale sez. I, sent. n. 2739/2011).
Riguardo alla competenza territoriale in caso di diffamazione tramite trasmissione radiofonica o televisiva, la giurisprudenza distingue in base alla circostanza che l’offesa consista o meno nell’attribuzione di un fatto determinato.
Ecco quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza sez. V penale n. 33287/2016: «Vero è che l’art. 30, comma quinto, secondo periodo, I. 6 agosto 1990, n. 223, prevede una competenza per territorio in capo al giudice del luogo di residenza della persona offesa dal reato di diffamazione commesso con il mezzo della trasmissione televisiva. Tuttavia la medesima disposizione normativa limita l’applicazione di tale deroga ai principi generali in tema di competenza territoriale, al solo caso contemplato dal comma quarto dello stesso articolo, riguardante i reati di diffamazione, commessi attraverso trasmissioni radiofoniche e televisive, consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato […] qualunque sia il soggetto autore del reato di diffamazione consistente nell’attribuzione di un fatto determinato».
«Ne consegue che quando la diffamazione commessa attraverso una trasmissione televisiva non consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, […] troveranno applicazione le regole ordinarie di determinazione della competenza per territorio, previste dall’art. 8, co. 1, del codice di rito, secondo cui la competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato […] legittimando in tal modo l’intervento dell’autorità giudiziaria nel cui territorio si è verificata la percezione del messaggio offensivo contenuto nella trasmissione televisiva, essendo ragionevole la presunzione che la trasmissione in diretta di un notiziario possa essere fruita da più persone. Né si oppone a tale ricostruzione interpretativa l’osservazione che, in tal modo, potrebbe verificarsi una concorrenza di più giudici ordinari nel prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona, in quanto, ove si verifichi un conflitto di tal genere e non sia possibile individuare il luogo in cui le prime due persone abbiano avuto percezione della diffamazione, troveranno applicazione le regole suppletive di cui all’art. 9, c.p.p.»
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